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  • Immagine del redattoreMoses Sabatini

Di ecologia e letteratura

(questo contenuto è stato pubblicato su Zest, qui.)


Parliamo di ecologia e letteratura con Leonardo G. Luccone e Moses Sabatini

di Antonia Santopietro


Moses Sabatini (Boston, 1956) ha conseguito un phD in tecnologie per la protezione dell’ambiente, ha insegnato al MIT ed è stato visiting professor in prestigiose università americane. È autore di più di cento pubblicazioni scientifiche sull’impatto antropico nei confronti della Natura. Alla fine degli anni Novanta si è trasferito in Italia per dedicarsi alla professione e alla diffusione delle sue idee.


Leonardo G. Luccone (Roma, 1973) dirige lo studio editoriale e agenzia letteraria Oblique. Tra i suoi ultimi libri: Questione di virgole – Punteggiare rapido e accorto (Laterza, 2018), vincitore del premio Giancarlo Dosi per la divulgazione scientifica; La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie, 2019).

Ringrazio, innanzitutto,  Leonardo Luccone e Moses Sabatini, per questo approfondimento su ZEST. Partendo dal romanzo di esordio di Leonardo “La casa mangia le parole“, in cui le tematiche ambientali sono ampliamente presenti, concentreremo questa intervista sui seguenti punti:

come e quando la scrittura narrativa incrocia le tematiche ambientali (i dispositivi narrativi e l’eco-fiction)catastrofismo vs negazionistil’approccio deep ecology vs sostenibilità


in dialogo con  Leonardo G. Luccone


📷

AS: Il romanzo La casa mangia le parole presenta, tra gli altri, un significativo riferimento ai temi ambientali. Jim Dwyer, nel suo saggio Where the wild books are. A field guide to eco-fiction definisce così la narrativa a tema ambientale o ecologico:

The nonhuman environment is present not merely as a framing device but as a presence that begins to suggest that human history is implicated in natural history. The human interest is not understood to be the only legitimate interest. Human accountability to the environment is part of the text’s ethical orientation. Some sense of the environment as a process rather than as a constant or a given is at least implicit in the text.

Secondo te il romanzo La casa mangia le parole può rientrare in una di queste definizioni?

LL Io non ho mai creduto nei generi e nelle classificazioni. Se prendi le grandi opere del passato finiresti il posto per attaccare le etichette. Il primo romanzo autenticamente ambientalista è Primavera silenziosa di Rachel Carson, del 1962, dove in effetti si usa la fiction per portar avanti istanze militanti. In questi ultimi tre anni sono usciti molti articoli in cui si fanno raggruppamenti di varia natura per dire quali romanzi sono più o meno ambientalisti. Se applichiamo una formula più solida troviamo passaggi di puro ambientalismo in Walden di Thoreau ma anche nei Promessi sposi o nell’Iliade. Un romanzo che parla di guerra non dovrebbe essere definito di genere. L’urgenza ambientale è banalmente il tema dei temi in questo momento perché è l’urgenza dell’umanità. Ma tanto siamo bravissimi a farci distrarre.

Vedrete, nei prossimi anni il senso di catastrofe ambientale permeerà sempre di più la scrittura e non se ne potrà più.

La casa mangia le parole si concentra sull’incapacità dell’uomo di darsi le giuste priorità. Parla di come il proprio burrone inghiotta la crisi del mondo. È un libro sull’egoismo di bassa lega.

AS: Interessante questa visione circa la sovrabbondanza di proposte che da ora, per moda (direi io), possano indulgere alla trattazione di questi temi senza una vera significativa riflessione e impegno. Però, proviamo a porre la questione sotto un altro punto di vista: è giusto (e in che modo può farlo?) che uno scrittore se ne faccia carico? Cito due esempi per tutti: in tempi meno baldanzosi di adesso, Calvino scrive: La formica argentina (1952), La nuvola di smog (1958), La speculazione edilizia (1957), e Luigi Malerba Il serpente (1966) e Salto mortale (1968). E questo avveniva in parallelo con altre pubblicazioni. A me pare che si possa intravedere e pensare una sorta di chiamata al dovere in questo senso? e il dovere è farsi portavoce. Riesci anche tu in questo intento nel tuo romanzo?

LL: Se io ci riesca non lo so e non sta a me dirlo, certo è che sono ossessionato dal principio di responsabilità, così come l’ha formulato Hans Jonas.

Il Calvino ambientalista mi suona fasullo. Meglio Malerba. Secondo me lo scrittore che si fa carico del degrado del mondo, come si fa carico di commentare la politica interna o un’aggressione militare, non lascia niente di buono. Se l’ambientalismo diventa un tema o, peggio, un genere come il noir o il giallo c’è da preoccuparsi perché vuol dire che sia gli scrittori di qualità sia quelli mediocri produrranno ciclicamente opere di maniera. Mi sembra che DeLillo in Rumore bianco abbia colto qualcosa di universale, nella paura dell’uomo per una minaccia più grande di lui, e d’altronde DeLillo stesso con quell’opera ha dato un altro vestito alla sua ossessione di scrittore. Non per questo però possiamo definire DeLillo un ambientalista. Nei primi libri Franzen sembra raccogliere quella stessa prospettiva, specie in Forte movimento. In Libertà viene fuori il birdwatcher, e Franzen mi sembra più autentico e immedesimato in una prospettiva collettiva, sebbene parta da una necessità individuale.

Non posso non citare Il sussurro del mondo di Richard Powers, uno scrittore che leggo da sempre. È bello che una dichiarazione di amore nei confronti delle piante si sia aggiudicata il premio Pulitzer. Powers coglie la miopia dell’uomo («vediamo soltanto ciò che ci somiglia») e critica alla base l’idea di progresso, eppure continua a farlo da un’angolatura solipsistica in cui sembra esclusa ogni possibilità di rivoluzione.

Oltre a Primavera silenziosa di Carson, l’opera puramente narrativa più vibrante che ho letto (e l’ho letta da vicino perché l’ho tradotta) è l’ultimo romanzo di John Cheever, Oh, what a Paradise it seems! (ora Sembra il paradiso per Feltrinelli). È stato scritto tra il 1981 e il 1982, in uno stato di paura febbrile per le perdite radioattive di una centrale nucleare e per l’ansia che destavano le discariche. Cheever racconta come un laghetto (un laghetto paradisiaco perché bambini e adulti ci pattinavano in santa pace, perché il mondo si fermava per qualche minuto) sia minacciato dalla speculazione. Si chiede perché mai il bello possa essere sopraffatto dalla violenza dell’orripilante. Se le cose sono destinate a guastarsi non si capisce se i residui di paradiso che abbiamo siano miraggi o cittadelle da difendere anziché espugnare. Ho fatto questo lungo ragionamento perché mi interessa lo spessore morale degli scrittori.

AS: In che modo, a tuo avviso, la narrativa può fornire un contributo concreto al dibattito, ovvero che dispositivi, contenuti e strutture possono considerarsi più efficaci nel dialogo con il lettore sul tema ecologico e ambientale, rispetto alla saggistica divulgativa e scientifica?

LL: Gli scrittori devono scansare l’intrattenimento, o meglio lasciarlo agli intrattenitori. Non si possono mischiare le due vie; invece mi sembra che sia questa la direzione. È un’ibridazione pericolosa, perché è un gioco al ribasso. Ecco, se posso collegarmi anch’io a quello che dice Moses, anche gli editor e gli editori dovrebbero spegnere il Grande Pulsante e alimentare le macchine con scritture naturali.

AS: È possibile parlare di un nuovo linguaggio delle narrazioni o di una rievocazione di una attenzione del rapporto uomo e natura che trova le sue radici nella nostra letteratura classica?

LL: No, non vedo nuovi linguaggi e nemmeno rievocazioni rispettose per i classici. I temi ambientali saranno giocoforza più presenti, ma – esclusi i thriller, i distopici e qualche furbata – registreremo la solita inerzia. È l’idea invalsa di scrittura letteraria e di letteratura che è sbagliata. Vi siete mai chiesti perché tanta della narrativa letteraria che circola è epurata dalla tecnologia e, in buona sostanza, dal contemporaneo; o perché si respira quella grumosa atmosfera anni Trenta oppure l’americanità anni Ottanta? È la zona sterilizzata, la camera bianca della creatività.

AS: Il punto di contatto tra letteratura ed ecologia è previsto in un ambito di studio che è poco diffuso in Italia, l’ecocritica. Che idea hai a riguardo?

La mia idea è semplice: ognuno deve fare il suo, individualmente e nella sua area di competenza, e deve essere pronto per un’azione di gruppo. Uno scrittore influente più incidere, ancora di più può un cantante o un influencer, ma serve la capillarità di una rete. Si è pervasivi se si è tanti, contemporaneamente, su fronti diversi.

Il primo passo si fa nelle scuole. Il primo passo è mostrare, far capire, senza ricorrere ai sensazionalismi. Jonathan Safran Foer, per esempio, ha avuto un impatto impressionante con i suoi memoir (Se niente importa, Eccomi). Molti prima di allora non si erano mai chiesti: «Perché mangiamo gli animali?».

La mia paura è che siamo storditi dalla routine: chi lavora dalla mattina alla sera, anche se fa lavori nobilissimi, non ha il tempo per costruirsi la propria integrità, per coltivare il proprio sapere umanista – umanista nel senso di rivolto all’uomo.


in dialogo con Moses Sabatini


AS: Ho letto con interesse della sua passione “verticale” e “profonda” per l’ecologia e gli argomenti che afferiscono alla emergenza che riguarda il nostro pianeta: condividiamo gli stessi interessi e forse anche le preoccupazioni, quindi provo ad approfondire rispetto ai possibili approcci: tra le filosofie ambientali, l’ecologia profonda mi colpisce particolarmente: l’approccio filosofico secondo il quale, se ci si allontana dalla prospettiva biologica che vuole l’ambientalismo a favore della sola preservazione “umana”, troviamo invece una visione più “eco-centrica” che vede la specie umana come una specie tra le altre. Arne Næss, in Introduzione all’ecologia. Traduzione e introduzione a cura di Luca Valera, Edizioni ETS, Pisa 2015, propone delle riflessioni interessanti: la prima è la relazione tra crisi ecologica e crisi culturale, la seconda riguarda la distinzione tra ecologia superficiale (quella che si occupa di migliorare le condizioni a vantaggio del genere umano) e quella profonda che sposta la questione su un piano appunto culturale, filosofico secondo il quale: Non è sufficiente proporre nuove soluzioni, “quanto piuttosto (…) risvegliare qualcosa di molto antico, cioè, la nostra saggezza della Terra”. Quali osservazioni puoi fare a proposito di questa visione?

MS: Prima ancora di rispondere alla sua complessa domanda, voglio dire due parole su quanto ha detto poco sopra Luccone. Nel suo libro che ho contemporaneamente molto amato e molto odiato (e che prometto di finire) ci costringe alla cosa più giusta e semplice: affrontare la crisi ambientale come «organismo umanità», come ente collettivo e universale. Luccone sa bene che non ci sarà mai nessun ambientalismo promosso dalla politica. Solo una rivoluzione che nasce dal terrazzo di casa propria può portare le persone in strada. Io sono stato alcuni giorni in prigione per aver manifestato pacificamente a Chicago, nel libro mi pare ci sia scritto. Se leggete il capo d’accusa la parola “ambiente” non viene neppure nominata. È su questa paura dei governanti che dobbiamo agire. Invece mi sembra che ci accontentiamo tutti delle misure minime e tremolanti che ci propinano. Perché tra Milano (dove vivo ora) e Roma (dove ho vissuto gli ultimi anni e continuo a vivere) c’è una differenza radicale nel fare la raccolta dei rifiuti? Perché c’è questo terrorismo dissennato nei confronti degli impianti? Nulla è completamente pulito. Noi dobbiamo tendere al miglioramento della prestazione ambientale. Io sono radicale e vorrei che si procedesse in modo netto, ma si deve portare qualcosa a casa subito e non riempirci di parole stupide.

Quanto alla sua domanda: conosco sommariamente gli autori che cita, ma invece conosco benissimo i padri dell’ecologia e i gradi ingegneri, fisici e architetti che hanno contribuito a disegnare percorsi ecologici virtuosi. Vede, io sono un ingegnere ambientale ma questo non conta. Mi sono occupato per trent’anni di ridurre l’impatto ambientale. Ora quest’espressione mi fa orrore. È diventato un modo di dire. Io sono un ecologista radicale militante e per questo, le dicevo, ho pagato uno scotto sociale importante. Prima di tutto, però, sono un uomo, una persona che vive su questo pianeta e qui davvero chi se ne frega di che studi uno ha fatto e tutto il resto. Io ho scelto la via tecnologica e visto che sono un uomo uso quel poco che so per comportarmi da uomo. Dare l’esempio al vicino, parlargli con parole dolci di quello che ci sta succedendo. È questo essere uomini. Vogliamo chiamare questa battaglia (ma se già usiamo «battaglia» ci mettiamo in una casella con cui i governi vanno a nozze) “ambientalismo”? Va bene. Ma allora andiamo nelle scuole a giocare con l’ambiente. Portiamo questi ragazzi in gita con qualcuno che gli parla con il cuore. Portiamoli a fare il miele, a raccogliere i funghi, facciamogli vedere quanto sono belli i vermi che purificano il terreno.

Per rispondere al punto specifico. Le dico su Arne Næss (nel frattempo sono andato a documentarmi): ha ragione, anche se quando ci si mette a fare le distinzioni tra le cose si rischia l’accademismo (mi creda, so quello che dico quando parlo di accademismo). Risvegliare qualcosa di antico? Sì, va bene. Sono d’accordo. L’istinto al bello di ciò che ci circonda e alla sua conservazione più che antico è innato. Le dico questo perché gli antichi (dall’Ottocento agli uomini primitivi) sono stati artefici di disastri ambientali rilevantissimi. Ognuno con i suoi mezzi. Se lei legge i romanzi di Dickens oppure lo stesso Thoreau (che abitava a trenta chilometri da casa mia a Boston), si parla di città come letamai e di industrie assassine. Dicevo che questo istinto all’amore per l’ambiente ce l’abbiamo dentro, ne siamo imbibiti. Dobbiamo solo far sì che venga fuori, che fluisca, che inondi… questa sì che mi piace di inondazione. Luccone ha citato Cheever: vede, quell’uomo ha abitato dove ho abitato io, abbiamo calpestato gli stessi sentieri, sentito lo stesso odore di menta. Non so che idea di ambiente abbia avuto nel corso della sua vita, certo è che in punto di morte ha sentito e professato un’idea semplice e universale di ambiente e di umanità. Cheever ha sentito la Natura. Ha presente la parola «stupore»? Ecco, la parola «stupore» è quella che si prova di fronte ai semplici e involontari prodigi della Natura. Lo stesso vale per lo spaesamento.

AS: Nel 2019 è morto il prof. Giorgio Nebbia, noto, oltre che per i suoi studi, anche per il suo profondo attivismo, in che modo, a tuo avviso, è realmente possibile incidere con forme di intervento attivo?

MS: Qui sono di parte e dalla parte del professor Nebbia, collega con cui ho avuto il piacere di dialogare più volte. Sin da quando ero giovane ho condotto un’attività di militanza a tutti i livelli. Al MIT abbiamo dimostrato come si potesse fare proselitismo dentro l’università. Mi sono accorto che i giovani vogliono sentirsi dire certe cose; è possibile cambiare la forma della mente. Abbiamo ottenuto risultati incredibili. Poi c’erano i nostri circoli di discussione dove il confronto diventava bellissimo. Credo nei maestri e nei discepoli; nel tempo in cui si è allievi e nel tempo in cui si deve diventare guida per qualcuno. In questi giorni in cui si parla di SARS vi dico che la propagazione della consapevolezza del nostro ruolo di umani sulla Terra si propaga più veloce di un’epidemia. Siamo ancora in tempo per diventare un’onda d’urto.

Non mi rassegno a Trump, come non mi rassegnavo a Bush e a molti di quelli che c’erano stati prima. Dobbiamo bypassarli, metterli di fronte a una rivoluzione in ebollizione: a quel punto non avranno armi per raffreddarci.

Luccone nel libro mi fa bramare di Spegnere il Grande Pulsante: non so se è l’unica soluzione, ma è senz’altro una soluzione d’impatto da considerare. Solo così gli metti paura.

AS: Può dirci qual è il tuo modo di guardare e studiare e essere impegnato nella questione ambientale ed ecologica? E soprattutto che idea ti sei fatto rispetto agli atteggiamenti negazionisti. A tal proposito segnalo un libro molto interessante tradotto in Italia da poco ma che è stato pubblicato in America una decina di anni fa: Merchant of doubts (Mercanti di dubbi. Come un manipolo di scienziati ha nascosto la verità, dal fumo al riscaldamento globale di Naomi Oreskes, Erik Conway, EA 2019) 

MS: Il mio è l’unico modo possibile: facendo qualcosa. Qualcosa di non velleitario. Qui la gente si è convinta che basta fare la differenziata. O consumare meno acqua, o usare le lampadine LED oppure, come fa la Bioambiente nel libro di Luccone, spingere a montare i pannelli solari sul tetto di casa. Queste pratiche sono il risultato di un’azione più profonda, sono – diciamo così – l’aspetto esteriore. Finora abbiamo fatto piccole azioni giuste per i motivi sbagliati o senza troppa convinzione o senza capire a fondo perché. È sul senso di appagamento ambientale che ci hanno indebolito. Ci fanno illudere che stiamo facendo qualcosa di buono, pur nel nostro piccolo, ma ci confondono il disegno generale. È tutto ammantato di un’ineluttabilità divina. È come se niente di tutto questo dipenda da noi.

Non conosco il libro che segnala, me lo andrò a guardare ma da studioso ho letto migliaia di pagine sull’argomento e ne ho scritto tanto. Come dicevo, non mi piacciono i sensazionalismi, mi piace la cultura di massa. Non sa cosa darei per incrementare di pochissimo la consapevolezza dell’importanza della Nostra Madre Terra in tutti i bambini e negli adolescenti. In Questo mondo che respira e nel mio prossimo libro faccio molti esempi e indico un paio di strade. Magari ne riparliamo.

AS: Riesco a solo a intuire la parola “radicalità”. La avverto però con la parte meno strutturata del mio approccio alla questione, quello di pancia, che opporrebbe a tutto il sistema “malato” un colpo di spugna e una ripartenza appunto “radicale”. Però sono curiosa di sentirle raccontare meglio la sua idea di radicalità. Con “lentezza”, come avrebbe detto Alex Langer.

MS: Lei cita una persona che mi sta a cuore. Sì, servirebbe tanto tempo e tanta lentezza per raccontare le cose. Non ho prodotto risultati così eclatanti da rendere la mia idea di radicalità esemplare. Sono d’accordo con lei: bisogna assestare colpi forti. Da solo non ce l’ho fatta, anzi devo dire che alla fine non ce l’abbiamo fatta come gruppo, lì a Boston. Abbiamo però tenuta accesa una fiammella (mi perdoni se in Italia fiamma implica altre cose – stiamo alla metafora di base) e io sono qui a sessant’anni ancora a combattere per qualcosa, e qualche decina di persone fa lo stesso perché lo ha imparato da me o perché gli ho semplicemente acceso una lucina dentro.

Provo a riassumergliela in due righe la mia radicalità, e le assicuro che lo faccio con la lentezza di Alex Langer: con le necessità primarie non bisogna accettare il compromesso. Mediare vuol dire offrire il fianco, vuol dire l’inizio della resa. Facciamo poche cose alla volta, ma da subito e fino in fondo.

una domanda per entrambi

AS: rispetto all’emergenza climatica, come vedete e che preoccupazione esprimente circa l’incapacità dei governi di concertare un cambiamento di rotta radicale e congiunto? è stato notoriamente insoddisfacente l’esito della 25esima conferenza sul cambiamento climatico organizzata dall’ONU, la cosiddetta COP25.

LL: A me sembra che ci stiamo suicidando. Ma lascio a Moses le considerazioni più tecniche.

MS: Un mio professore al MIT citando Thoreau diceva sempre: «Preferisco bere acqua da una fonte naturale che bere un calice di vino da un uomo importante». Ci propinano vino scadente, bibite gassate. Non dobbiamo credergli. Non è quella la strada. Non siamo riusciti a diminuire le emissioni. Serve radicalità. La gradualità non porta a nulla. Eliminiamo la plastica da un giorno all’altro, eliminiamo i combustibili fossili da un giorno all’altro: la tecnologia farebbe passi da gigante.

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